Quel genio di Bolo Paper: intervista a Marco Nicotra
“Fa ridere, ma fa anche riflettere”. Se dovessi descrivere in poche parole Bolo Paper, etichetta editoriale indipendente fondata nel 2011 dal grafico, tipografo e artista milanese Marco Nicotra, probabilmente (e banalmente) sceglierei queste. Ma per capire un po’ meglio questo irriverente progetto editoriale, ho fatto qualche domanda proprio al suo ideatore.
Marco non è Bolo, ci tiene a sottolinearlo subito all’inizio di una chiamata FaceTime che non cela la mia ansia da prestazione, immancabile se il giorno prima di un’intervista vieni raggiunta da un messaggino che recita: “però non farmi domande banali”. Insomma, Marco non è Bolo, ma incarna perfettamente lo spirito dissacrante e libero dei suoi lavori.
Inizio subito con una domanda banale (tiè!): chi o cosa è Bolo Paper
Bolo Paper, a differenza di come viene percepito, è il mio progetto personale. Nasce nel 2011 dalla volontà di ritagliarmi del tempo per dare sfogo alla mia creatività e ormai va avanti da 11 anni. Viene percepito però come un progetto di gruppo con base a Bologna e anche su questo malinteso si basa parte del sarcasmo delle mie pubblicazioni. Però devo ammettere che quest’associazione con Bologna mi infastidisce un po’, non avrei mai dato al mio progetto il nome di una città, conferendogli delle caratteristiche e dei paletti territoriali così definiti.
Non esiste, dunque, nessun “noi” in Bolo. Dall’idea alla grafica, dalla stampa alla distribuzione fino alla promozione, gestisci l’intero processo di realizzazione delle tue pubblicazioni da solo. Ci racconti come nasce un prodotto Bolo?
Inizio col dire che la parola chiave per riuscire a fare tutto è determinazione nel tempo ed è per questo che difficilmente collaboro con qualcuno. Mi è capitato di avere a che fare con persone che iniziano tantissime cose insieme, che hanno mille idee, ma poi non le portano a termine.
Per quanto riguarda il mio metodo, probabilmente è opposto a quello di chiunque altro perché non segue una linearità, dall’idea allo sviluppo, ma piuttosto accade il contrario. Per me è importante sia la parte creativa, quindi d’ideazione, che quella concreta di realizzazione del prodotto.
Ho un file di testo che è una sorta di banca dati di idee e soprattutto immagini da cui mi lascio ispirare e che utilizzo all’occorrenza. Non inizio mai un lavoro dicendomi, ad esempio, “adesso faccio una fanzine sul femminismo”. Parto sempre da una serie di immagini, quelle raccolte nel famoso file di cui prima, che messe insieme funzionano graficamente e visivamente e che declino su più pagine fino a formare un’idea più strutturata. A volte mi stupisco anch’io del prodotto finale, nato quasi in maniera casuale.
Insomma, non riesco a partire da un tema come fa la maggior parte delle persone, non riesco a iniziare un lavoro da una parola, per generare creatività ho bisogno delle immagini. Questo è un altro motivo per cui Bolo non è un progetto commissionabile. Spesso mi chiedono di collaborare a progetti o di realizzare fanzine su un determinato argomento, ma io non lavoro così.
Io ti ho scoperto un po’ di anni fa durante un evento a Milano. Bisogna ammettere che le tue fanzine non passano inosservate. Sono ironiche, ma credo che facciano storcere anche più di un naso. Insomma, dietro c’è del sarcasmo e ci si potrebbe anche intravedere una vena “politica”, passami il termine. Qual è lo scopo del tuo lavoro?
Lo scopo del mio lavoro sicuramente non è quello di divertire o almeno non soltanto. Il mio obiettivo è infastidire in maniera sottile le persone che diventano vittime di paradossi sociali. Femminismo a cazzo, ad esempio, nasce per colpire chi prende una cosa legittima come il femminismo e la porta a un’esasperazione che la rende simile al maschilismo, riproponendo le stesse dinamiche di potere.
Sicuramente il tema del ridere è importante perché ovviamente le mie fanzine, i poster, le cartoline devono essere anche prodotti appetibili, ma non è quello l’obiettivo principale. Quasi tutti i miei titoli hanno lo scopo di scavare nei paradossi che si creano quotidianamente nella società.
Questa mia volontà di voler dare fastidio la si comprende già dal nome: la parola Bolo non viene da Bologna ma da bolo alimentare, quindi da qualcosa di fastidioso e disgustoso. Il nome al progetto lo avevo dato un po’ a caso, ma alla fine descrive esattamente l’effetto che voglio creare: Bolo Paper è un umorismo che vuole infastidire.
Ovviamente poi ci sono anche titoli nonsense, come Spigoli o Miao, sono quasi oggetti d’arte che sembra assurdo che qualcuno abbia stampato. Per me è importante alternare la “pesantezze” dei temi trattati in alcuni titoli al nonsense di altri.
Col mio lavoro voglio fa capire come alcuni argomenti intoccabili, come i bambini, la maternità o la difese dei diritti, non è giusto che siano così intoccabili. Storcere il naso appena si prova a fare un discorso che necessita di essere analizzato meglio, è un pregiudizio e io voglio scardinare proprio questi pregiudizi che nascono quando determinate tematiche, assolutamente giuste e condivisibili, vengono portate all’estremo.
Un altro aspetto che non passa inosservato nei tuoi lavori, è il tuo mettere a nudo gli stessi processi che si nascondono dietro la progettazione grafica, soprattutto pubblicitaria. Penso ad esempio alle immagini stock che utilizzi e su cui volutamente lasci il watermark. Cosa vuoi comunicare con queste tue scelte?
Voglio evidenziare uno pseudo-paradosso, ovvero il fatto che abbiamo accesso libero a una serie quasi infinita di immagini in alta definizione, che per me o per chi fa il mio lavoro, sono come gli ingredienti per fare una torta, ma che molti pensano siano inaccessibili. Si crea così una sorta di crash percettivo: è la prova certificata che sto creando una cosa finta. Inoltre questo stile comunicativo si allinea all’immaginario di internet fatto di meme, immagini sgranate, watermark in bella vista, e che quindi fa di determinati limiti e difetti un tratto distintivo.
Uno dei tuoi titoli che personalmente ho amato di più è la rivista Bolo che abbiamo selezionato anche per il nostro Secret Mag Club. Uscito in soli tre numeri, si tratta di un magazine con un livello di sperimentazione grafica che non si vede tutti i giorni. Pensi che tornerai mai a pubblicarla o a realizzare magazine più strutturati com’era appunto Bolo?
Bolo magazine come altri titoli, ad esempio Optimus, sono stati per me dei micro fallimenti nel senso che dietro c’è stato tantissimo lavoro e sono serviti molti soldi per produrli, ma si rivolgevano ad una clientela davvero di nicchia. Si tratta di progetti che sicuramente continuerò a fare, ma sempre meno. Bolo è diventato un’altra cosa quando ho inconsciamente spostato il focus da fanzine e magazine che facevo soprattutto per me, a progetti che, pur rispecchiandomi, possono diventare anche un’idea regalo e quindi raggiungere più persone. Inoltre fare un magazine strutturato porta via davvero tanto tempo ed energie, preferisco fare un titolo nuovo a settimana piuttosto che uno all’anno.
Il tuo lavoro come artista contemporaneo però non si esaurisce alle pubblicazioni su carta stampata. Hai un account instagram con una bio che recita “Conducting an anthropological study on Tiktok”. Oltre a far sorridere i tuoi follower, che progetti ci sono dietro questa tua ricerca?
Bolo è legato alla carta ma potrebbe non esserlo, è un esperimento in cui decido man mano cosa far rinvigorire e cosa lasciar morire. Con il primo lockdown dovevo capire come tenere in vita il canale instagram, che era molto legato oltre che ai miei prodotti anche agli eventi dal vivo, così è venuta un po’ per caso l’idea di condividere dei video da TikTok. All’inizio non sapevo se quest'idea avrebbe avuto un nesso o meno con il mio progetto, diverse persone mi scrivevano per dirmi che condividere quei TikTok poteva danneggiare il mio lavoro editoriale. Poi ho realizzato che si trattava di un esperimento perfettamente in linea con quello che faccio.
Di fatto prendo dei video che nel loro contesto hanno un senso e li ripropongo completamente decontestualizzati. Quello che, guardandoli, crea l’effetto cringe è proprio la risemantizzazione nel mio contesto di questi video, perché li guardi e non sai che valore dargli. È esattamente lo stesso effetto che provocano le mie fanzine. Insomma, non deve far ridere, deve far capire i paradossi che vediamo tutti i giorni.
Non so che futuro avrà questo esperimento, ci penserò con calma.
Domanda di rito. Qual è il senso di una pubblicazione stampata oggi? La carta stampata è davvero destinata a morire?
Per me il senso di un prodotto cartaceo oggi è cento rispetto allo zero di un prodotto digitale. Ho iniziato a collezionare fanzine e libri di immagini fin da bambino e per me sono essenziali perché se non avessi una controparte fisica non riuscirei a trarre ispirazione.
Dire che la carta è destinata a sparire è un modo generico per evidenziare che un certo tipo di editoria, di cui non mi sento di far parte, è destinata a ridimensionarsi. Ma la fanzine, i poster e tanti magazine, secondo me esisteranno sempre perché non possono essere sostituiti da un prodotto digitale, ma anche perché costituiscono una sorta di status symbol, servono per dare un tono alla persona che li compra, sono una sorta di feticcio e non c’è motivo che spariscano, un po’ come i vinili. Ovviamente parliamo di nicchie di mercato, prodotti destinati a delle determinate bolle sociali.
Questo per dire, in definitiva, che la carta non sparirà, ma che non è la materia prima che fa la differenza, è il modo in cui viene utilizzata.
Sei attivo dal 2011 e conosci molto bene la scena dell’editoria indie italiana. Come se la passa?
È un ambiente molto vivo, abbiamo tanti festival di editoria, più di quelli che vedo negli altri paesi, quindi c’è tanta voglia di fare. Ovviamente in questi undici anni ho visto nascere e morire tanti progetti, in parte credo dipenda non tanto dal valore in sé dei progetto, ma dal fatto che si tratta quasi sempre di progetti di gruppo e i gruppi creano conflitti, è più difficile che restino in piedi per oltre 10 anni. Però è un bellissimo ambiente, c’è tanta voglia di sperimentare, ultimamente ad esempio in molti stanno recuperando le tecniche di stampa calcografiche con caratteri mobili. È bellissimo che ci siano progetti che si autoproducono, ma non so quanti riescono a farne una forza economica.
Penso anche a Bolo Paper, che è nato con lo scopo di sfogarmi creativamente e non con quello di fare soldi, anche se ci sono dei mesi in cui le mie entrate principali derivano proprio da Bolo. Sono contento, vedere che le cose che faccio vendono mi rende più creativo, ma sicuramente non voglio farlo diventare il mio principale lavoro perché non potrei permettermi più di sbagliare e sperimentare quanto voglio.
Trovi alcuni titoli Bolo Paper QUI