Mi connetto alla call in un caldissimo pomeriggio di agosto, sono già tutti lì che mi aspettano non conoscendo il mio proverbiale ritardo. Accendo la camera del computer e davanti mi compaiono quattro ragazzi un po’ più giovani di me, sorridenti, forse sorpresi di aver trovato un interlocutore a cui raccontare il loro progetto editoriale, forse no.

Alberto Moneta, Amedeo Cappuccio, Eugenio Cappuccio, Pietro Carini, Vittorio Bruni, Filippo Maria Sanna e Umberto Colella, i founder del magazine, mi avevano spedito poche settimane prima una copia del loro VEC, secondo numero di una rivista nata un po’ per caso, ma con le idee chiarissime e che ha capito immediatamente come si fanno le cose fatte bene.
Ben strutturata, ironica e autoironica, VEC alterna contenuti leggeri ad altri che lo sono meno, senza cedere mai il passo alla pesantezza, ma accompagnando il lettore in riflessioni davvero stimolanti. All'interno di VEC è possibile trovare un’articolata gamma di argomenti, tra cui saggi, interviste, reportage fotografici, rompicapo e addirittura una doppia pagina in stile album di figurine Panini, ma con gli amari nostrani.
Con la sua cover total rosa Barbie (scelta prima dell’annuncio del film che ha scandito l’estate 2023,  giurano i ragazzi che il riferimento è la collezione FW22 di Valentino per cui saremo per sempre grati a Piccioli), questo magazine ha catturato immediatamente la mia attenzione, tanto da farmi scomodare il Collettivo che lo ha fondato per capirci qualcosa di più. 

“Verità, eleganza, credibilità: nel 2020, sparsi tra Londra, Milano e Bangkok e confinati tra quattro mura durante il lockdown, è attraverso la lente di questi tre concetti che i membri del Collettivo VEC hanno proposto di guardare il mondo - leggo nella nota che mi hanno inviato - nato come movimento irriverente che ironizza sul costante flusso di contenuti posticci e fatui che inonda i feed social, VEC è diventato un universo creativo che mette in discussione la saggezza convenzionale dei filtri, degli hashtag e delle storie usa e getta, invitando con autoironia il lettore a un consumo attivo di contenuti veicolati da una rivista esclusivamente cartacea, per la massima eleganza e credibilità”.

Bello, molto. Ma come nasce questo (improbabile?) collettivo con componenti sparsi a varie latitudini del globo?
Galeotta fu una mail inviata da Alberto, la missiva digitale conteneva una sorta di manifesto di resistenza (e sopravvivenza, aggiungo io) all’impoverimento culturale che stavamo vivendo nel 2018-2019, un momento caratterizzato dal paradosso del valore dell’incultura e dalla completa identificazione con il proprio lavoro. Di fronte a me ho tre avvocati e un filosofo che lavora nella pubblicità, nel Collettivo ci sono anche un illustratore (osteopata by day), un architetto e un antropologo. Capisco immediatamente che l’identificazione totale con il lavoro non è una cosa che appartiene alla redazione di VEC, ma – come sottolinea Alberto – “non essere dei creativi puri è ciò che ci ha consentito di dare concretezza alle idee che avevamo e volevamo far circolare”. Insomma, se VEC esiste è anche perché i ragazzi sono cresciuti tra manuali di diritto civile e comparato.
Alla base del Collettivo c’è una sorta di “gioco” social, lontano però dall’ottica glitterata di Instagram, che è poi alla base dello stesso VEC: verità, eleganza e credibilità iniziano a diventare i tre parametri con cui vengono votati luoghi, bar, ristoranti ed esperienze in una sorta di evoluto e concettuale tripadvisor che mette insieme i futuri membri di questo collettivo.
La rivista cartacea deriva da questa visione del mondo e nasce proprio per provar a suggerire argomenti stimolanti e coinvolgenti, come fosse una valvola di sfogo per vivere con vivacità una quotidianità a tratti noiosa.

 

Perché un magazine cartaceo?
“Perché è figo averlo sulla scrivania accanto a Monocle” – mi dice Filippo Maria, mentre Alberto gli fa eco sostenendo che lo ha fatto "solo per scopare" (sì, se non si fosse ancora capito l’autoironia è il punto di forza di questa rivista).
“La scelta del mezzo – mi spiega Amedeo – è legata al fatto che la rivista cartacea per noi prende 10 punti su 10 in tutti e tre i nostri coefficienti: la verità sta nel fatto che nessuno nel Collettivo sapeva cosa implicasse fare un magazine; 10 in eleganza perché in un mondo sempre più digitalizzato noi ci limitiamo al cartaceo, alla cosa cioè meno accessibile, ma che cattura l’attenzione molto meglio dei distratti scroll sullo smartphone; 10 in credibilità perché tre anni dopo aver iniziato il progetto, lo abbiamo portato a termine impegnandoci al 100%”, e anche per Filippo Maria il cartaceo è l’unico mezzo in grado di interpretare i valori di cui il Collettivo vuole farsi portavoce.
Pietro mi spiega come la scelta dipenda dal fatto che oggi tutto l’intrattenimento e la cultura sono sempre di più dei servizi, pensiamo ad esempio agli abbonamenti alle piattaforme di streaming, mentre il prodotto, quello fisico e tangibile, resta sullo sfondo: “volevamo ridare valore a qualcosa di materiale, lontano dallo stream continuo e al rinnovamento di contenuti, qualcosa che avesse un valore non solo culturale ma anche emotivo. Ogni numero porta con sé una storia che è sua e solo sua”.
Alberto, correggendo il tiro della prima risposta che mi ha dato, sottolinea come “in un mondo così veloce, in cui si tende a semplificare tutto, c’è l’esigenza di avvicinarsi a qualcosa di più articolato, non c’è valore nella velocità – mi dice – il valore deriva dalla complessità”.
Per Eugenio “il mezzo prettamente cartaceo ci ha permesso di lavorare sulla rivista non solo come uno strumento di distribuzione serializzato di informazioni, bensì un’opera a sé stante. Infatti, non consideriamo la monocromia rosa la caratteristica principale della copertina di VEC02 (che funge più da custodia anonima voluta per non dare alcun indizio sul contenuto) – piuttosto, è l’ologramma (che può apparire soltanto in forma fisica), applicato a mano dai membri del Collettivo, che dà un marchio di autenticità ad ogni singola copia, e le fornisce la propria individualità che la distingue da ogni altra copia”.

Sfogliando il magazine ho notato che gli articoli non sono firmati e che nel colophon sono riportati i nomi dei membri del Collettivo, ma non i ruoli redazionali. Non c’è un art director, un editor in chief, un grafico o un capo redattore, una scelta piuttosto insolita, ma anche questa ben ponderata. Nessuno prevale sul Collettivo VEC, l’ego e l’autoreferenzialità sono la base della nostra società, ma lo spazio che si vuole creare con questo progetto è svincolato da questa logica. Il Collettivo è aperto e pronto ad accogliere chiunque si riconosca nella sua filosofia: “Il non firmare gli articoli è un po’ un tendere una mano di fronte a chi vuole entrare nel Collettivo, eliminare l’autorialità consente di non creare barriere con chi potrebbe pensare di non esser all’altezza di scrivere nel magazine – dice Pietro – ovviamente ci siamo divisi i compiti, soprattutto in questo secondo numero, il che ci ha consentito di fare un bel salto in avanti. VEC è figlio di un percorso di crescita che ha impegnato tutti in egual modo”.

E a livello di contenuti, come nasce il magazine?
“Abbiamo deciso di non fare una rivista a tema, ma essere incubatore di vari spunti” esordisce Filippo Maria, perché “definire è limitare” dice Alberto. Ovviamente ci sono dei filoni ricorrenti, come l’articolo dedicato ai mercati che è pensato come quadripartito, o i reportage fotografici Postcard from. “Cerchiamo di fare una selezione che mantenga equilibrio tra ironia e approfondimento, siamo bravi finché non ci prendiamo troppo sul serio, ma proviamo sempre ad uscire dalla nostra comfort zone, a raccontare qualcosa di originale e leggero. Proprio per questo evitiamo di andare in una direzione troppo verticale e specialistica, dedicarsi ad un singolo tema richiede un tipo di approfondimento che non vogliamo dare a VEC”, spiega Pietro.
VEC è diventato quasi un modo di vivere, la lente tramite cui io osservo la vita. Quando selezioniamo i contenuti facciamo un mega brainstorming e capiamo che taglio dare ai singoli argomenti per razionalizzarli nel modo più “consumabile” possibile. Il contenuto è molto ampio, la chiave di lettura è l’ottica con cui VEC guarda al mondo”, sottolinea Amedeo. “Quando facciamo questi brainstorming – continua Alberto – siamo molto allineati, ognuno porta esperienze profondamente diverse in questo tavolo di discussioni e, a ruota sciolta, con molta sensibilità, riusciamo a individuare delle tematiche veramente belle che poi magari ritroviamo mesi dopo trattate anche da creativi molto più bravi di noi. Il nostro, in sostanza, è un lavoro di sintesi tra background molto diversi. Inoltre, crediamo nel cazzeggio creativo, con ironia buttiamo sul piatto argomenti seri per renderli più digeribili”.
Non a caso l’indice di VEC è strutturato come il menù di un ristorante con antipasti, dessert, ma anche un carrello di bolliti, una metafora per indicare gli articoli un po’ più pesanti da mandar giù.

Sul futuro di VEC, i ragazzi non si sbilanciano molto, ma sono sicuri che si tratta di un progetto destinato a durare, anche ad evolversi abbracciando altri linguaggi come quello del podcast, “perchè ormai la sacra triade verità-eleganza-credibilità è diventata il nostro stile di vita”.

 

 

29 agosto 2023 — Anna Frabotta
Etiquetas: interviste

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