Conosco Sara a Pisa, un pomeriggio di giugno e mentre passeggiamo verso la torre barcollante mi racconta di un progetto che parla di donne: donne eccezionalmente normali. Si chiama Dàme issue 03.

 

 

Intervista con Sara Augugliaro

 

CHIARA ZONTA
Dàme è il nome del tuo magazine. Giocando con le lettere la parola si può scomporre in sillabe “Da me” svelando il soggetto chiamato in causa, me, ma non l’intenzione del verbo. Da me, da noi: siamo chiamati ad agire, ma per compiere cosa?

SARA AUGUGLIARO
Dàme è nato con l'obiettivo di creare uno spazio di riflessione sul corpo delle donne, spesso giudicato e stereotipato dalla società, e tabù anche per noi stesse. Viviamo sotto una costante pressione sociale che ci porta ad ambire ideali irraggiungibili, facendoci sentire continuamente inadeguate: troppo magre o troppo grasse, troppo alte o troppo basse, troppo femminili o troppo mascoline. Questa spinta a conformarci ci allontana dalla possibilità di accettarci per quello che siamo davvero.
"Da me" rappresenta un invito ad agire, a prendere coscienza della nostra identità e a raccontare le nostre esperienze. È un richiamo a fermarsi tra la frenesia quotidiana, a riflettere sulla rappresentazione del nostro corpo per noi e per gli altri. Il nostro scopo è incoraggiare ogni donna a rivendicare sé stessa e il proprio corpo nella sua interezza e unicità.
Dàme vuole essere un punto di partenza per un dibattito sull'autoconsapevolezza, sulla normalizzazione e sull'accettazione di sé. Attraverso riflessioni personali, esperienze della nostra community e contributi di esperti come attivistə, giornalistə e psicoterapeutə, vogliamo guidare i nostri lettori in un percorso di riscoperta del proprio corpo e della consapevolezza di sé.

 CZ
Ogni numero uscito si focalizza su una specifica parte del corpo: Dàme issue 01 si concentra sulla pancia, Dàme issue 02 sulle gambe, questo terzo numero si basa sui capelli. In che modo pensi i tuoi capelli oggigiorno incidano sul tuo essere?

SA
Dàme issue 01 e issue 02 parlano di pancia e gambe: sono le parti del corpo che creano più disagio alla maggior parte delle donne (me compresa) e sono soggetti a canoni estetici spesso irraggiungibili, imposti da decenni di campagne pubblicitarie fuorvianti. I capelli, per me, sono fonte di grande orgoglio, e lo sono sempre stati: hanno sempre avuto un ruolo significativo nella mia identità e nella percezione di me stessa. Oggi, più che mai, i miei capelli sono un simbolo del mio essere donna: mi fanno sentire femminile e desiderabile.
La mia capigliatura ha sempre avuto un impatto positivo su me stessa, ma lavorando a questa edizione di Dàme sono entrata in contatto con storie singolari, con vissuti intensi e relazioni complesse con i propri capelli, ho scoperto quanto questi possano essere carichi di significati diversi per altre donne. I capelli sono molto più di un semplice attributo fisico: rappresentano una storia personale e collettiva, un campo di battaglia su cui molte di noi devono combattere. Dàme issue 03 ci insegna che i capelli possono rappresentare libertà e oppressione. Primo Levi scrive: "Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli", individua nella rasatura uno dei primi mezzi per annullare l’individuo, la sua identità. I capelli parlano di religione, di potere, di politica, di sessualità, di genere.
Oggi i capelli mi ricordano il mio privilegio. Sono consapevole di quanto sia fortunata a poter esprimere la mia identità attraverso i capelli, senza le costrizioni o i giudizi che molte altre donne, in diverse parti del mondo, ancora subiscono.

 

CZ
Il magazine si sviluppa nella messa a nudo di storie personali che portano il lettore ad empatizzare con le vicissitudini presentate. I racconti sono quotidiani, quasi non necessitassero la clamorosità dell’evento per ritagliarsi uno spazio. Essendo storie poco rumorose come sono arrivate a te per avere poi luce su Dàme?

SA
Le storie che pubblichiamo su Dàme sono frutto di una ricerca attenta, parte di esse arrivano in maniera spontanea dalle nostre lettrici e dalla community che abbiamo costruito sui social. Quando apriamo un’open call, svelando il focus della prossima edizione su una specifica parte del corpo, riceviamo una varietà di contributi: racconti personali, articoli, progetti fotografici, disegni, illustrazioni e poesie. Sono spesso le stesse donne a proporre le loro storie, sentendosi rappresentate dalle tematiche che affrontiamo. Questo le spinge a condividere con noi le loro esperienze più intime, trovando il coraggio di raccontarsi, di mettere nero su bianco i propri sentimenti e di sentirsi comprese e meno sole.
Il nostro obiettivo è sempre stato quello di dare voce a chi spesso non ha la possibilità di farsi ascoltare, senza bisogno di creare sensazionalismo. Ci interessa mostrare la bellezza e la complessità delle vite quotidiane che, in fondo, toccano tutti noi. Le storie non hanno bisogno di clamore o straordinarietà per trovare spazio: è nell’autenticità che risiede la loro forza.

CZ
C’è un capitolo dedicato alle fotografie di Zuzu Valla che ritrae diverse modelle con disabilità, fisiche e non. Un aspetto interessante che emerge è la recente scelta delle case di moda di integrare nell’immagine del brand corpi differenti dallo standard sociale. È un fenomeno iniziato con l’inclusione di modelle curvy arrivando poi al coinvolgimento di modelle con disabilità. Da un lato avviene una rappresentazione più inclusiva, dall’altro può esserci una superficialità d’intenzione mossa da una mera strategia di marketing aziendale che marcia sopra l’emarginazione altrui. Tenendo conto di entrambi gli aspetti cosa credi abbia maggiore peso?

SA
Includere corpi differenti nella moda è un passo avanti verso una maggiore rappresentazione, tuttavia è fondamentale essere consci delle motivazioni dietro queste iniziative. Se tali scelte sono guidate da un sincero impegno a ridefinire gli standard di bellezza e abbattere gli stereotipi, penso meritino il nostro sostegno. Se al contrario l'inclusività è frutto di una mera strategia di marketing, il rischio è quello di perpetuare le stesse dinamiche di oppressione. È l’autenticità dell’intento a fare la differenza.

CZ
Capita che ci siano temi sensibili a cui, spesso involontariamente, prestiamo poca attenzione: magari perché noi o chi vicino a noi non li ha vissuti in prima persona, magari per semplice sbadataggine. Lavorando a questo progetto e dovendo riflettere su ogni stigma, dolore, vanto legato all’immaginario dei capelli, quale pensi sia stato il capitolo che ha puntato maggiormente il riflettore su un aspetto trascurato?

SA
Credo che ogni capitolo del magazine, a suo modo, accende un riflettore su qualcosa di nuovo. Molto dipende da chi legge. Dai feedback che abbiamo ricevuto, ad esempio, molte donne si sono ritrovate negli articoli sul dilemma della tinta, ma meno in quelli legati alla malattia, semplicemente perché non l’hanno vissuta in prima persona; tuttavia ciò ha permesso loro di informarsi e scoprire punti di vista differenti. Ad esempio molte lettrici non sapevano che le parrucche destinate alle donne con il cancro fossero fatte di capelli sintetici, e non con le trecce dei capelli che avevano donato.
Uno degli articoli dedicati all’alopecia racconta la malattia di una donna narrata dal punto di vista della figlia, che descrive il dolore nel vedere sua madre che la osserva allo specchio mentre si pettina. È un tema delicato, spesso trascurato, ma che rivela quanto gli standard estetici imposti possano avere un impatto devastante sulla salute psicologica non solo di chi vive la condizione, ma anche su chi vi sta accanto.

CZ
Nel magazine si presenta spesso una convergenza fra capelli e peli, entrambi sottostanti a rigidi standard sociali. Sui social una delle maggiori critiche che viene mossa alle donne che scelgono di non depilarsi è la mancanza di coerenza. Per gli utenti una donna non depilata non dovrebbe truccarsi, non dovrebbe acconciare i capelli, non dovrebbe mettere lo smalto alle unghie e soprattutto non dovrebbe togliere i peli dalle sopracciglia se li tiene alla vulva. È come se l’immaginario di genere fosse un foglio con una lista da spuntare: alla prima carenza il foglio è strappato. Credo che queste incomprensioni siano frutto di una società che ambisce alla libertà ma è ancorata alle definizioni: definire permette di categorizzare, categorizzare permette di riconoscere, riconoscere permette serenità. Finché saremo impauriti dai nostri stessi margini non li supereremo, quando compiremo il passo per smettere di spaventarci?

SA
Superare la paura dei margini richiede un cambiamento profondo nella percezione collettiva della libertà e dell’identità. Finché la società avrà bisogno di categorizzare per sentirsi a proprio agio, la vera libertà resterà un ideale lontano. Il primo passo è riconoscere che la coerenza non si misura nel conformarsi a un nuovo set di regole, ma piuttosto nell'abbatterle. Quando riusciremo a vedere la diversità come una risorsa e non come una minaccia, potremo davvero cambiare.
Voglio pensare che Dàme sia un tassello in questo cambiamento. L'obiettivo finale è rappresentare un cambiamento attraverso l'editoria indipendente, lottando per una giustizia sociale in cui le diversità – fisiche, di genere, di provenienza – non siano semplicemente accettate, ma celebrate come elementi essenziali di una piena inclusione. In tutte le nostre edizioni abbiamo reso protagonista la nostra community: nelle nostre pagine ci sono le loro immagini e storie. Con un tono di voce onesto e diretto, vogliamo comunicare che ogni corpo e ogni persona ha un valore intrinseco, indipendentemente dalla taglia, dalla forma, dall'abilità o disabilità, dal colore della pelle o dall’orientamento sessuale. Questo progetto editoriale parte dall'idea che esiste una percezione soggettiva di inadeguatezza rispetto agli standard e alle convenzioni imposti dalla società e dagli altri. Il nostro intento è sensibilizzare i lettori verso una visione più autentica della donna e delle sue forme, promuovendo una consapevolezza che vada oltre gli schemi tradizionali.

CZ
Ho iniziato l’intervista giocando con la sillabazione di Dàme, qual è invece la reale genesi del nome?

SA
Il nome Dàme è nato durante il mio percorso universitario, inizialmente come progetto di laurea. "Da me" gioca sul concetto di partire da sé stessi, dalle proprie esperienze personali, per poi ampliare la riflessione a tematiche più universali. Volevo che il nome riflettesse l’intenzione di creare un dialogo aperto e inclusivo, dove ciascuna storia contribuisse a una narrazione più ampia che ci riguarda tutte. La possibilità di scomporre il nome in più significati rappresenta proprio la natura della rivista: uno spazio di esplorazione e autenticità, dove ogni voce è un tassello di un mosaico collettivo.
Ma c’è di più. Dàme richiama anche il termine francese Madame, signora, donna. Tuttavia, non si tratta della sua accezione canonica. Il nome è volutamente spezzato, ricomposto e riscritto per riflettere la nostra missione: un magazine inclusivo che va oltre la rivista tradizionale, diventando una piattaforma, una community, una fonte d’ispirazione e di confronto. In un momento storico in cui la società rimane profondamente patriarcale, con la diet culture, il catcalling e le discriminazioni di genere, Dàme si pone l'obiettivo di riscrivere le nostre storie, rivendicare la nostra identità e promuovere una comprensione reciproca. Dàme è un simbolo di trasformazione e resistenza, uno spazio in cui possiamo riscoprire noi stesse e conoscerci meglio, l’una attraverso l’altra.

Se vuoi leggere le tante forme di Dàme, le vostre, le nostre, le mie, puoi trovare il numero QUI.

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