Perimetro è una rivista sui generis, una di quelle che con poche parole (e tante immagini) riescono a svelare meglio di altre l’autenticità di ciò che raccontano. Tra le sue pagine Milano si spoglia dai suoi abiti più glamour e modaioli per restare nuda di fronte al lettore.

Descrivono così il progetto gli editori della rivista: 

“In un momento storico in cui la gente vive un forte senso di alienazione, ecco che diamo vita ad una realtà che va in direzione diametralmente opposta. Vogliamo raccontare il momento d’oro che Milano sta vivendo, come una pentola in ebollizione, sforna novità, eventi, manifestazioni quasi quotidianamente […] Con lo sguardo di alcuni tra i fotografi più talentuosi della nostra generazione vi racconteremo Milano” 

Nato nel 2018, in un momento in cui Milano stava conoscendo uno dei suoi periodi più fortunati, tra arte, cultura e moda, Perimetro oggi si reinventa e saluta il 2021 con una nuova forma, il quadrato, e una nuova serie, Block, che meglio parla del nostro contemporaneo.
Ad onor del vero, bisogna però dire che questa rivista non è nuova a cambi di pelle e che Block è già la terza saga di Perimetro, dopo Tasca e Side. Ogni anno, infatti, il progetto assume una nuova forma, confezionando sei numeri per ciascuna serie, tutti collezionabili in un cofanetto, come si trattasse di tanti capitoli di un unico progetto.
Abbiamo chiesto a Sebastiano Leddi, fondatore di Perimetro, di raccontarci il nuovo corso della rivista, ma anche cosa significa realizzare un magazine cartaceo dopo il 2020.

Sebastiano, come mai la terza saga di Perimetro si chiama Block?
Block ricorda un blocco, qualcosa di molto solido nella costruzione. La nostra è una narrazione molto urbana, in questo senso il nostro Block diventa quasi un elemento architettonico, una forma abitabile.
Inoltre, la forma quadrata è una caratteristica interessante anche dal punto di vista del layout grafico, noi cerchiamo di valorizzare al massimo la fotografia senza impaginarla con un taglio e, visto che molti fotografi scattano in analogico con medi formati, questa forma è assolutamente congeniale all’impaginato. Abbiamo scelto di avvolgere il numero con una cover che, aperta, svela ben sei facciate. Si tratta di un elemento grafico che in un certo senso vuole abbracciare la città, riassumendo il contesto in cui si svolgono le storie narrate. Vi anticipo anche che, oltre alle sei edizioni dedicate a Milano, Block avrà due speciali su Roma e Tokyo, e ne arriverà anche un terzo dedicato a Nairobi.

Nell’editoriale descrivete Perimetro Block come una risposta alla paura del cambiamento, ma anche come riflesso di quello che stiamo vivendo. Quanto è cambiata la Milano che raccontate nel vostro magazine in questi tre anni di pubblicazioni?
Direi radicalmente. Perimetro è nato in un momento di totale celebrazione della città, in cui Milano era sotto i riflettori del mondo, viaggiava a una velocità incredibile e veniva raccontata sempre in modo autopromozionale, seguendo una narrazione che potremmo definire celebrativa per l’appunto. A noi è venuta voglia di raccontare la Milano vera, non la vetrina. Attraverso l’immagine abbiamo cercato di restituire l’anima della città e questo approccio iniziale lo abbiamo applicato anche alla situazione che stiamo vivendo ora. Il nostro tentativo di raccontare la verità ha di conseguenza mostrato l’immagine nuova di Milano. La cosa più interessante è che scorrendo tutti i numeri di Perimetro è possibile fare un confronto tra il prima e il dopo e credo che questo restituisca fedelmente il contemporaneo.

Come avete selezionato i fotografi e i progetti raccolti in questo numero?
Perimetro è, prima ancora che un magazine, una community molto attiva sul territorio con eventi e presentazioni, quindi i fotografi che ospitiamo tra le pagine del magazine, ma anche sul nostro sito, li conosciamo tutti personalmente. Il più delle volte sono i fotografi stessi che si propongono delle storie, altre volte siamo noi a contattarli per proporre una collaborazione. Questo accade su Milano, mentre per Roma e Tokio abbiamo lanciato delle call coinvolgendo circoli, scuole, negozi di fotografia e librerie che ci hanno aiutato a spargere la voce.
Una volta ricevuti i progetti, la redazione si occupa della selezione decidendo quali storie vanno sull’online e quali invece sul cartaceo. Generalmente sono tre gli elementi su cui ci basiamo nella nostra selezione: narrazione del territorio fatta esclusivamente da fotografi locali perché non ci interessa lo sguardo turistico; progetti legati a personaggi e avvenimenti; fotografia più documentaria, non artefatta, tendenzialmente ci interessa qualcosa di vero. 

Ad esclusione del progetto fotografico di Marco Erba, che avvolge anche il magazine con la sua cover a fisarmonica, in questo numero di Perimetro la città di Milano emerge attraverso chi la vive. Si tratta di un caso o di una scelta voluta?
Quando parliamo di territorio, non ci riferiamo necessariamente o esclusivamente a un racconto paesaggistico o architettonico, ma intendiamo il perimetro in cui si svolge la storia. In linea di massima posso dire che c’è un flusso di ricezione dei progetti molto casuale, a volte riceviamo più storie su persone, forse perché le architetture sono più difficili da fotografare, altre volte riceviamo più foto urbane.
Ad esempio, quando vi troverete tra le mani le edizioni dedicate a Tokyo e Roma, vi accorgerete di quanto siano diverse rispetto a quelle di Milano. Tokyo è particolarissima, ha una fotografia molto evocativa, si percepisce a prima vista che ci troviamo di fronte a una cultura diversa dalla nostra. Roma invece è molto cruda, quasi sofferente, arrabbiata, si contrappone a una Milano più estetica, luminosa.

In un anno in cui molte redazioni hanno abbassato la saracinesca, ritardato uscite e optato solo per il digitale, voi avete remato in controtendenza e siete addirittura cresciuti. Come te lo spieghi?
Durante la pandemia abbiamo organizzato ‘100 Fotografi per Bergamo’, si è trattato della più grande raccolta mai fatta nel mondo della cultura a scopo benefico che ha supportato l’ospedale durante la pandemia e che continua ancora oggi nel progetto Open Edition Gallery.
Questa iniziativa ci ha dato un’esposizione mediatica enorme, ci ha fatto arrivare davvero in tutto il mondo e ovviamente c’è stato anche un ritorno di rete che ci ha permesso di sviluppare nuove collaborazioni e nuovi progetti, come quelli su Tokyo e Nairobi.

Ha senso un magazine cartaceo oggi?
Ha senso per creare uno storico, qualcosa che resti. Il nostro è un progetto di archivio di storie che succedono nel presente ma che, ovviamente, si rivolgono al futuro. Vogliamo raccontare Milano nel tempo e la carta e l’unica cosa che dura.

 

 

12 gennaio 2021 — Dario Gaspari

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