New Decadentism: luoghi marginali tra ombre e rinascite, viaggi e cucina
Nelle prime settimane di settembre, guardiamo l'agenda riempirsi e raccogliamo gli ultimi brandelli d’estate. E mentre ascoltiamo le voci di chi è appena tornato o di chi sta per partire, vi riportiamo le parole scambiate con Greta Contardo, di Cook_inc magazine. Per noi, sono state un battello leggero verso mete rimaste ai margini o cadute nell’ombra capaci di essere una guida o una finestra sul mondo anche nei prossimi mesi.
[V.A.] Nell’issue di questa estate parlate di “decadenza”, ma lo fate togliendo la polvere e usando una luce, direi, positiva. Da dove nasce questo tema e perché avete scelto di trattarlo in questo modo?
[G.C.] A prescindere dal tema, cerchiamo sempre il lato positivo: vogliamo stampare storie che lascino un seme, un’ispirazione e non un retrogusto amaro. L’idea della "decadenza" nasce da una sorta di attrazione per luoghi marginali, a volte in via d’estinzione. Sono spazi dove manca un tessuto sociale e dove, ora, stanno nascendo progetti e realtà. È un fenomeno che abbiamo notato soprattutto negli ultimi anni, tra il pre e il post Covid: tanti giovani sono rientrati dall’estero per abitare zone dimenticate. Tuttavia, la decisione definitiva di dedicare un numero a questo tema l’abbiamo presa lo scorso anno, durante Un paese ci vuole, un evento organizzato a Gibellina, in Sicilia, dedicato alla marginalità e al vivere in luoghi marginali.
Poi, essendo che volevamo parlare di “decadenza” ma con un’accezione positiva, di rinascita, c'è stato un altro evento significativo: l'incontro un oste, che ormai oste non è più, che ci ha raccontato come le osterie “tout court” non esistano più, ma come gli osti nel senso più profondo del termine continuino a esserci. Con poche parole ci ha portate dritte dentro quella decadenza che stavamo cercando, mostrandoci come una figura classica e connotata possa resistere nel tempo, seppur trasformandosi un po'.

Tout le Monde veut Marseille, foto di Costanza Musto
[V.A.] Parlate anche di identità e cucina contemporanea. Nella vostra ricerca, qual è il compromesso tra centri storici, ormai gentrificati e parodie di sé stessi, e la capacità di cambiare, reinventandosi con sincerità?
[G.C.] Il cambiamento è l’unica certezza, ed è anche ciò che cerchiamo. Ci interessano le storie che hanno attraversato una trasformazione con un’identità energica e particolare. In questo numero, abbiamo cercato l’anarchia. L’abbiamo voluta perfino in copertina dove c’è una sedia. Una scelta editoriale non scontata per una rivista di cucina.
[V.A.] È curioso come i vostri scatti siano sempre puliti e precisi, ma allo stesso tempo capaci di sorprendere. Vedi appunto le copertine.
[G.C.] Sì, ci divertiamo. Poi vogliamo lasciare i lettori un po' spiazzati, stupiti, anche perché non siamo solo un magazine di cucina. La sedia in copertina va proprio in questa direzione: è un piccolo atto di anarchia editoriale, a cui seguono storie altrettanto anarchiche. Per esempio, c'è la storia de Il Bel Respiro a Piacenza: gestito da una coppia, Fabio ex meccanico e Chiara laureata in scienze politiche, è un luogo non è definibile come ristorante perché, anche se si serve da mangiare, l'atmosfera che si respira è tutt'altra. Pensa solo che ora, Fabio e Chiara lo hanno riaperto proprio a casa loro, riarredandolo con oggetti trovati in discarica o in mercatini vintage.
Un altro aspetto a cui è difficile non prestare attenzione è che mentre Fabio è in cucina e Chiara in sala, i loro ruoli si intrecciano: durante i pranzi e le cene parlano lingue che non capisci, inventano parole e si completano. A questo si aggiunge la cucina di Fabio che è brutale, nel senso migliore del termine: ha imparato da autodidatta.

Belrespiro, foto di Gloria Soverini
[V.A.] Prima hai usato la parola “spirito” e dalle storie nel magazine emergono proprio le anime e i caratteri di chi ha avuto il coraggio di rimettere mano e spirito alle regole. Trovo che questo aspetto sia cruciale per poter crescere qualcosa negli interstizi.
[G.C.] Sai ci sono persone che vivono in luoghi quasi abbandonati e che ti dicono, con naturalezza, che non sceglierebbero altro. Una delle cose che ho percepito di più è che siamo noi - esterni ed estranei – a definire certi posti come “dimenticati” o “fuori da tutto”. Tuttavia è solo una prima impressione dettata dal fatto che lì non arrivano tutti i treni o mancano le comodità urbane a cui noi siamo abituati. Il punto, però, è che mentre li etichettiamo, smettiamo di vedere tutti gli altri elementi che li compongono.
[V.A.] Nell’attraversare e raccogliere storie dal mondo, avete sviluppato una vostra cartina mentale, o fisica, per tenere traccia di tutto?
[G.C.] Per la ricerca sì, teniamo traccia di “punti caldi” e “freddi”. Siamo legati ad alcuni luoghi – chi ci conosce sa che torniamo spesso in Perù, Sud America, Scandinavia…
Però, per non essere ripetitivi, facciamo sempre dei brainstorming. Una volta steso il timone, elenchiamo i luoghi e se, guardando il mondo da lontano, ci accorgiamo che manca una zona significativa, riapriamo tutto e rimettiamo mano al progetto.
[V.A.] Avete mai pensato di condividere queste mappe con i lettori?
[G.C.] Ci abbiamo pensato diverse volte, ma non l’abbiamo ancora fatto. Per ora, abbiamo online delle playlist di luoghi: non sono vere e proprie mappe, ma delle specie di guide che connettono storie, anche di numeri passati, non lasciandole scadere.
