Alea: quando l’antropologia incontra i magazine
Si può parlare di antropologia culturale al di fuori delle mura accademiche? La risposta (affermativa) a questa domanda ci arriva da Alea, riuscito esperimento editoriale che adatta il linguaggio dell'antropologia a quello delle riviste indipendenti.
Alea si misurarsi con le ritmiche sfumate e complesse del contemporaneo, attraverso un racconto polifonico che fa capo all'antropologia per andarsi poi ad intrecciare ad altre discipline, dimostrando ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, quanto il magazine sia un potente mezzo per sposare, veicolare e sviscerare la contemporaneità, declinata in ogni sua forma.
In occasione dell'uscita del suo terzo numero, abbiamo chiesto a Francesco Danesi, Direttore Editoriale di Alea, di raccontarci qualcosa su questa nuova rivista italiana.
Chi siete e che cos’è Alea?
Alea è una rivista indipendente di antropologia culturale… Ma sappiamo bene che questa definizione non è immediata o limpida per la maggior parte delle persone. Il motivo è presto detto – ed in fondo è la ragione per cui abbiamo creato il magazine: l’antropologia culturale costituisce un sapere che, anche nelle sue forme più “semplificate” (o banalizzate, ahinoi), ha perso contatto con la sfera pubblica. Le ragioni sono varie, ma il risultato è che, nella maggior parte dei casi, il lavoro degli antropologi e delle antropologhe resta confinato nelle pubblicazioni scientifiche accademiche. Qui subentra Alea, che nel suo piccolo vuole provare a valorizzare la ricerca antropologica, la sua capacità di esplorare contesti culturali “altri” cogliendone le peculiarità più profonde, e la sua rilevanza nel mondo contemporaneo. Riteniamo che l’antropologia sia il più attuale e il più provocatorio dei saperi: la rivista prova a tracciare un sentiero editoriale altamente sperimentale attraverso il quale dialogare con un pubblico non specializzato, avvicinandolo ai temi del presente attraverso la sensibilità dell’etnografia, della ricerca sul campo e dell’osservazione critica. Definiamo sperimentale e dialogico il nostro percorso perché, di fatto, facciamo nostro il principio della contaminazione: il punto di partenza è l’antropologia, certo, ma la rivista accoglie tra le sue pagine una grande interdisciplinarità – fondamentale oggi. C’è la sezione Ballate, quella antropologica vera e propria, ma poi seguono gli Arabesque interdisciplinari, la Fantasia artistica/fotografica, la Suite di brevi scritti speculativi e infine il Divertimento letterario.
Qual è lo scopo del vostro magazine?
L’intento è quello di raccontare il mondo contemporaneo attraverso uno sguardo attento alle sfumature, agli interstizi, alle zone d’ombra; ci interessiamo, fondamentalmente, di tutto ciò che le grandi narrazioni globali lasciano a margine. Il punto di partenza è un evidentissimo paradosso: la globalizzazione dei sistemi economici e politici non ha di certo prodotto un mondo più uniforme e lineare, anzi. L’eterogeneità sociale e culturale si è ulteriormente polverizzata e all’idea di un mondo unitario si contrappone oggi una pluralità estremamente aleatoria di mondi unici e irriducibili. È possibile raccontare questa configurazione del presente? Alea prova a far suo questo interrogativo, non per esaurirlo, al contrario: per alimentarlo. Ed è proprio la sensibilità dell’antropologia culturale a guidare l’indirizzo editoriale della rivista: una sensibilità che problematizza il globale a partire dal locale e che interroga la complessità culturale del presente leggendola in contesti localizzati. L’enigma diventa una cifra stilistica e narrativa obbligata: ogni numero è orientato da una cornice tematica, ma l’interpretazione della stessa di fatto subisce una deflagrazione di rappresentazioni, parole, visioni, prospettive. La soluzione di questo enigma è aleatoria, nel senso che è affidata unicamente allo spirito e alla curiosità critica dei lettori e delle lettrici.
Una rivista di antropologia culturale cartacea, non vi sembra un po’ anacronistica come scelta? Qual è il senso di un magazine di carta oggi?
Più che anacronistica credo che il nostro sia un progetto inaspettato. Per gli addetti ai lavori, perché in effetti rappresentiamo una novità assoluta come approccio e direzione editoriale, in un panorama che purtroppo soffre gli eccessi dell’auto-referenzialità. Per chi ci scopre e decide di leggerci, perché – banalmente – quando mai si era vista una rivista indipendente di antropologia stampata su carta?! Per noi il senso di stampare e “farci toccare” con mano è derivato un po’ da questo elemento di sorpresa, dalla voglia di stupire tanto nella materia del progetto quanto nei contenuti. È anche vero che abbiamo una tiratura limitata, dunque certi ragionamenti e problemi propri dell’editoria di massa, di fatto, perdono un po’ di senso rispetto all’editoria indipendente, che, anzi, vive e si rinnova costantemente proprio in quanto “feticcio materico”.
Dunque qual è il senso di un magazine di carta oggi… Impossibile rispondere in modo univoco. Certo, ci sono le mode e il ritorno ai supporti materiali del passato è sotto gli occhi di tutti, ma ci sono anche ragioni culturali e voi lo sapete meglio di noi. Per Alea l’oggetto-rivista è il “dono” tangibile attraverso cui costruiamo la reciprocità con il pubblico: una relazione che nasce nei piccoli universi di ogni numero, creati dagli autori e dalle autrici che accogliamo nelle nostre pagine, e che piano piano espandiamo nei momenti di incontro e dialogo. Quello che stiamo facendo, in effetti, non avrebbe senso senza l’oggetto-rivista, tanto per il valore culturale quanto per quello economico che ovviamente deve supportare la pubblicazione e, soprattutto, la retribuzione del lavoro autoriale.
Alea è un prodotto particolarissimo anche dal punto di vista del design, ad oggi sono usciti tre numeri più uno speciale, tutti diversissimi tra loro per formato, testata, che nel caso dello speciale addirittura scompare, carta, rilegatura. Non temete che il lettore possa sentirsi disorientato?
Come darti torto! In effetti, siamo abbastanza spericolati da questo punto di vista… Il progetto grafico della rivista deriva dalla visione a fondamento del progetto. L’identità di Alea è essa stessa oggetto di un divenire continuo: l’estetica è in costante relazione con lo sviluppo tematico della rivista e si presta a un polimorfismo privo di qualsiasi preconcetto o vincolo. Ci sono due fattori da non trascurare in tal senso: il primo è che non avevamo precedenti, e in assenza di riferimenti il ventaglio di possibilità si estende quasi all’infinito; il secondo è che nessuno di noi si è unito al progetto con un background di competenze specifiche in ambito editoriale, e questo vale anche per l’aspetto di design e progettazione grafica. Con un cauto “dilettantismo” abbiamo cercato di sviluppare un’estetica che non fosse puro orpello, ma che riuscisse ad amplificare i tratti fondamentali del progetto. Di qui l’idea di un banalissimo asterisco come logo, per esempio – simbolo per eccellenza di ciò che si ritiene secondario e che dunque deve essere messo a margine, a piè di pagina, lontano. Ma soprattutto la voglia di giocare con il medium grafico stesso, che certamente è molto più di un supporto al contenuto, e che per la rivista costituisce un ulteriore livello comunicativo. Alea in questo senso prova a essere anche molto ironica, evitando di prendersi troppo sul serio e lanciando allo stesso tempo sottili provocazioni nascoste qua e là.
Il nuovo numero di Alea è dedicato al tema della Simbiosi. Come mai avete scelto questa tematica?
Ultimamente si fa un gran parlare del concetto di interdipendenza. La guerra in Ucraina ha in un certo senso risvegliato l’opinione pubblica rispetto alla complessità delle relazioni nel mondo globlalizzato. L’antropologia culturale già da tempo ha richiamato l’attenzione sulle criticità di un mondo così profondamente interconnesso, mostrando soprattutto la nostra difficoltà di leggere i riflessi “locali” dei grandi fenomeni contemporanei. La verità è che avevamo già stabilito i temi del 2022 lo scorso dicembre, e la “simbiosi” era emersa con forza come una dimensione del presente che dovevamo a tutti i costi esplorare: lo scoppio del conflitto a febbraio ha, purtroppo, ulteriormente confermato l’urgenza di questo tema. L’antropologa Roberta Raffaetà, che ha contribuito al numero, scrive che dobbiamo affrontare il “con-vivere” del nostro tempo, tanto quanto il “morire-con”: è esattamente questa la reciprocità che volevamo affrontare, l’ambivalenza della nostra quotidianità interconnessa.
Ogni numero di Alea nasce grazie a una call aperta. Come selezionate i contributi da pubblicare e come avete selezionate quelli che possiamo leggere in questo numero?
Esatto, l’Open Call è per noi fondamentale: solo così riusciamo a creare un vero e proprio laboratorio di voci, esperienze e visioni. Dobbiamo però ammettere che la selezione non è semplice, l’idea di base è quella di comporre un numero che “esalti” l’identità editoriale di Alea, il suo carattere enigmatico. Cerchiamo di avere contesti e situazioni variegate, pungenti, emozionanti, spiazzanti. La domanda è sempre: cosa dice del presente questo numero di Alea? Se la visione che emerge è troppo omogenea o coerente vuol dire che stiamo tradendo i nostri intenti, e allora facciamo un passo indietro. E questo ragionamento non si limita al singolo numero: teniamo sempre in mente la “storia” editoriale di Alea, pensando a cosa è venuto prima e a cosa verrà dopo. Simbiosi ha seguito lo stesso percorso.
Oltre alle tre pubblicazioni principali, avete dato alla stampa anche un numero speciale, una sorta di spin off del magazine che avete chiamato Alea B1, un prodotto ibrido, né magazine né libro, ma la fedele riproduzione di un faldone d’archivio. Ce lo racconti?
Certo, anche perché la vicenda è quanto meno assurda! La premessa è questa: ogni anno Alea intende pubblicare 2 numeri tematici più uno speciale (le B-side di Alea). Lo scorso anno il nostro redattore Pasquale Menditto, allora impegnato in alcune ricerche d’archivio a Roma, ci scrive su WhatsApp: «Ho trovato una cosa pazzesca», lasciandoci poi sulle spine per ore e ore. In breve: in un deposito con diversi materiali d’archivio mai catalogati e destinati al macero (cosa che accade più spesso di quanto si pensi in Italia), Pasquale aveva trovato uno scatolone con un vecchio faldone siglato “I.C.99”. Lui in realtà stava cercando delle documentazioni etnografiche per la sua tesi; all’interno di quel faldone in effetti c’erano dei diari etnografici (non quelli che cercava), ma non solo: fascicoli sparsi, floppy disk, audiocassette. Il problema è che era tutto caotico e incomprensibile, insomma, sembrava assemblato ad uso privato. Ma ancor più spiazzante è stata l’esplorazione del contenuto in redazione: c’erano documenti di una fondazione scientifica chiamata Marienbad di cui non avevamo mai sentito parlare; ritagli di giornale su omicidi e morti; fotocopie di diari etnografici; documenti di un laboratorio; micro-film di brevetti; bozze di articoli scientifici; il report di un’indagine.
Ci siamo detti: è uno scherzo o una fantasia di qualcuno. Abbiamo chiesto aiuto ad alcuni contatti, tra storici e archivisti, senza grande successo. Tutti però hanno confermato i nostri dubbi: il faldone era stato sicuramente organizzato per fini personali e se era finito in un deposito, è perché forse qualcuno stava provando a studiarlo. Non sapevamo ancora cosa pubblicare come numero speciale, così l’idea fulminante è stata: perché non diamo una veste editoriale a questo faldone, facilitando magari il suo studio? Abbiamo fatto tutte le verifiche del caso e senza pensarci due volte abbiamo iniziato a scansionare tutto, arrivando così alla pubblicazione di Alea B1 – che abbiamo anche affidato ad alcuni ricercatori e ricercatrici per ulteriori approfondimenti.
Non avete lasciato bussole per orientarsi ai vostri lettori che, di fatto, si trovano davanti del materiale d’archivio puro forse senza ben sapere cosa farsene. Io ad esempio leggendo Alea B1, mi sono sentita un po’ come la protagonista di una serie crime intenta a risolvere un caso mettendo insieme i vari pezzi di un rebus. Era questo il risultato che volevate suscitare?
Hai perfettamente ragione. Prendendo in mano la riproduzione del faldone nulla lascia pensare alla cornice editoriale di Alea. È stata una scelta intenzionale che, in effetti, va contro il buon senso “commerciale”: volevamo che Alea fosse nascosta nell’ombra di questa riproduzione editoriale – la sovraccopertina del numero infatti nasconde l’editoriale e la stessa intestazione della rivista. In fin dei conti, come redazione, ci eravamo limitati a ricomporre un ordine “visuale” e documentario del materiale di partenza, per facilitarne la consultazione. Ma volevamo anche trasmettere il senso di sorpresa e fascinazione che il faldone stesso aveva esercitato su di noi, evitando dunque di inserire nostre ipotesi, didascalie o altro. C’è anche un altro aspetto: noi ovviamente abbiamo alcune idee… I materiali hanno collegamenti più o meno espliciti tra loro e il ruolo della fondazione scientifica Marienbad sembra determinante. Hai detto bene, c’è un rebus e tutti inevitabilmente abbiamo provato a risolverlo. Il problema principale è che una quantità spropositata di riferimenti a fatti e persone sembrano irrecuperabili, se non per piccoli accenni. Faccio un esempio: c’è un diario di un ricercatore italiano impegnato nell’osservazione di alcuni esperimenti di un laboratorio genetico. Non abbiamo trovato nulla di nulla in merito, eppure uno dei tanti post-it (scritti da non si sa chi) a margine di una pagina del suo diario fa riferimento alla società americana “Clonaid”, che in quegli anni pare stesse sperimentando alcune tecnologie legate alla clonazione umana – e questo è verificabile con una semplice ricerca su Google. È un vero labirinto ed è incredibile notare come chiunque prenda tra le mani il B1 non possa fare a meno di provare a svelarne il senso. In più, è sorprendente come certi frammenti, nonostante risalgano a più di cinquant’anni fa, “risuonino” ancora con le preoccupazioni odierne su vari temi, dall’energia al ruolo della genetica, fino alle infiltrazioni politiche e lobbistiche nell’attività di ricerca scientifica. Dunque è un po’ questa l’idea: forse qualcuno ne sa più di noi, il che non è difficile in tutta onestà. Ci sono già arrivati diversi messaggi e teniamo aperta la possibilità per il futuro di esplorare in pubblico le varie piste.
Avete appena lanciato la call per il quarto numero della rivista. Qualche anticipazione?
Il prossimo numero sarà dedicato al tema “Odio”. È un tema forte e profondamente radicato nella nostra quotidianità. Come sempre, però, la nostra provocazione tematica intende esplorarne i margini e le ambiguità. L’anticipazione che possiamo darvi è in realtà un auspicio: cercheremo di stupire i lettori e le lettrici su un tema che si presta inevitabilmente a letture piatte e negative. E proveremo a farlo in stile Alea.